LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU HAI SPAZIO PER VEDERE"

creata il 9 dicembre 2008

 

 

Vieni da “oggettività plurale

Sei in “Lo sguardo”

"Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza. Ne è un segno evidente la gioia che essi provano per le sensazioni, giacché queste, anche mettendo da parte l'utilità che ne deriva, sono amate di per sé, e più di tutte le altre è amata quella esercitata con gli occhi".

Aristotele, Metafisica, Libro I, incipit.

Non è immediato riconoscere lo sguardo come oggetto del desiderio. Da una parte perché è un oggetto inflazionato dai mass-media (televisione, cinema, pubblicità), dall’altra perché si insedia nel cuore dell’attività teoretica della civiltà, là dove si producono e si convalidano gli schematismi cognitivi che saranno applicati alle e dalle masse. “Teoria”, infatti, deriva direttamente dal greco theoreo, “guardo in modo investigativo” con finalità di sistemazione. Cos’ha a che vedere – è il caso di dire – lo sguardo teorico con il desiderare?
Risponde Rosella Prezzo, filosofa e saggista, nel suo ultimo libro Veli d’occidente. Temi, metafore, simboli (Bruno Mondadori, Milano 2008,). “Il legame tra sapere e desiderio è il perno attorno a cui Platone fa ruotare quel nuovo discorso di verità che è la filosofia. […] La figura del filosofo, come nuovo attore sulla scena della città, è quella di un amante di un genere particolare: l’amante della verità. In questo quadro si aggiunge però un altro elemento decisivo che entra a comporre la trama su cui ricamerà per secoli la parola filosofica. La conoscenza viene infatti associata all’atto del vedere (theoria), all’ideale di luminosa evidenza, all’universale visibilità delle idee che fungono da paradigmi del sapere” (p. 37), cioè da teoremi o unità di teoria. Lo sguardo presenta da subito un intreccio singolare, particolarmente interessante per l’analista: l’intreccio fra desiderio e amore, forse tenuti insieme da un terzo filo, il godimento.
Interroghiamo, allora, l’origine di questo discorso.
Qui si parla di verità e sapere, ma certamente non di verità rivelata dal divino, ma guadagnata attraverso “il lavoro del concetto”, e certamente non di sapere codificato in qualche catechismo o enciclopedia, ma del sapere singolare del soggetto. Giacché tale sapere non possiede la verità in forma innata, si pone, allora, il problema non di cosa sia la verità, precisa Prezzo, ma del nostro rapporto alla verità. Come riconosciamo la verità?
Molto schematicamente la tradizione porge due criteri di verità, che fanno entrambi giocare la funzione dello sguardo: il criterio gnoseologico e il criterio teologico.
Il criterio gnoseologico fonda la scienza antica, intendendola come conoscenza, paradigmaticamente la conoscenza storica. Lo sguardo entra in gioco dal momento in cui lo storico vuole “sistemare quel che vede” (da istemi e orao). La storiografia, quindi, produce la teoria dell’esperienza che io come storico ho sotto gli occhi. E quel che vedo è vero, quindi posso farlo rientrare nella mia sistemazione, se risponde al criterio di verità come adeguamento. Le versioni del criterio di adeguamento sono classicamente due: o l’intelletto si adegua alla cosa – versione aristotelica – o si conforma all’idea – versione platonica. Ma la sostanza dell’adeguamento non cambia. Certo, le cose non sono così semplici. L’adeguamento non è un fatto meccanico e automatico. C’è adeguamento e adeguamento. C’è l’adeguamento buono, massimamente vero, e c’è l’adeguamento cattivo, potenzialmente falso. Da qui la necessità di istituire un’istanza di controllo sull’operazione di verità, che dica la verità sulla verità. E l'istituzione la dice, in effetti, la verità sulla verità. Dice che è vera solo la verità adeguata non tanto alla cosa o all’idea ma alla volontà del padrone, in ultima analisi all’idea del padrone. A ratificare la verità, non solo storica, è una sorta di Super-Io. Il Super-Io come guardiano del principio di realtà non fu inventato da Freud. Preesisteva alla psicanalisi e Freud stesso ebbe difficoltà a farlo rientrare nelle propria metapsicologia.
Il criterio teologico, invece, fonda la verità sulla rivelazione dell’altro. È vero l’essere che appare nella luce dell’altro. La funzione dello sguardo qui opera in modo passivo come dischiudersi delle palpebra alla luce del mattino. La Lichtung, o schiarita, è l’esempio paradigmatico dell’epifania dell’essere allo sguardo del filosofo-teologo, che ora per pudore si fa chiamare fenomenologo. Qui la conoscenza è secondaria, anzi relegata ad attività tecnica regolata da un metodo prestabilito, e primaria risulta l’ontologia del soggetto, che è in quanto è nella luce (Licht) dell’essere (Dasein). L'essere, poi, è essere agli ordini del padrone (Cfr. J. Lacan, Encore. Le Séminaire. Livre XX (1972-1973), Seuil, Paris 1975, p. 33.)

Ma ecco il punto critico comune a entrambi i criteri di verità. Non danno spazio alla verità specifica del soggetto né considerato in potenza – come condizione trascendentale che potrebbe modificare i risultati dell’operazione di verità – né in atto – come elemento di disturbo dell’oggettività, a cui entrambi i suddetti criteri mirano come al loro ideale di “scientificità”. Per raggiungere la verità oggettiva – trascendentale – del soggetto, in modo indipendente da presupposti impliciti, acriticamente accettati e non bene preventivamente dilucidati, la prima fenomenologia, quella di Husserl, tenta la via dell’epoché. Con questo artificio schiettamente metafisico Husserl pretende di sospendere ogni predeterminazione epistemica e di arrivare alla verità “vera” del soggetto, nascosta dietro le verità dell’atteggiamento “naturale” soggettivo – fondamentalmente l’atteggiamento omologante dell’adeguamento. Il procedimento si dimostra tuttavia non più che una pia intenzione, inefficace a tal punto da generare solo sterili paradossi. (Vedi il § 53 della Crisi delle scienze europee di Husserl.) La verità, intesa come emergenza dal nascondimento, che si rivela al soggetto nell’epoché, si “rivela” poi connotata in modo pesantemente teologico, specie nella versione heideggeriana della fenomenologia.

Esiste una terza via alla verità? Sì, esiste. È la via non cognitiva e non teologica del soggetto della scienza moderna, emergente nel XVII secolo soprattutto per merito di Cartesio, una figura di filosofo-scienziato, che la storia della filosofia non conosceva più dai tempi dei presocratici. E infatti, con Cartesio la verità inaugura una nuova storia. La verità del soggetto della scienza – soggettiva e oggettiva – è un fatto epistemico, in primo luogo, e provvisorio, in secondo luogo. È il portato di un sapere instabile e incompleto, che si estrinseca nel dubbio. Non ha nulla a che fare né con l’adeguamento alla realtà del padrone né con la rivelazione di dio, ma è il portato del dubbio.

Con quale criterio si giudica questa “nuova” verità? Essendo una verità fino a prova contraria e mancando di ogni modello precostituito (metafisico) cui conformarsi, la verità scientifica si giudica dalla fecondità. Scientificamente parlando è vero non ciò che è oggettivamente vero, in base a criteri precodificati in qualche libro più o meno sacro, ma è vero solo ciò che produce altre verità. Tanto basta a differenziare la scienza sia dalla cognizione sia dalla teognosi. Nell’attesa della falsificazione, l’ipotesi di lavoro o la congettura scientifica funzionano da verità, anche se non sono vere. In questo senso anche il falso può essere vero – tipicamente in psicanalisi l’interpretazione erronea o prematura – se produce l’emergere di nuove verità - tipicamente in psicanalisi l’affluire di nuovo materiale inconscio. E' evento comune e ricorrente nella storia della scienza che il falso produca del vero (il partitivo alla francese è qui quanto mai pertinente). Si va dal “sublime” calcolo infinitesimale – una volta era chiamato proprio così – alla “banale” reazione di Wassermann per l’accertamento della sifilide. (La storia esemplare di questa reazione, oggi obsoleta, è stata vividamente tratteggiata da Ludwik Fleck nel suo Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Per una teoria dello stile di pensiero e del collettivo di pensiero (1935), trad. di M. Leonardi e S. Poggi, Il Mulino, Bologna 1983).

Forse a questo punto dovrei precisare che per via alla verità né cognitiva né teognostica non intendo la via induttiva, alla Bacone per intenderci. (Su Bacone si dovrebbe aprire una pagina in questo sito. Chi me la scrive?) Il “metodo” – la strada attraverso cui – si giunge alla verità è congetturale. Le nuove verità che la congettura scientifica genera non confermano la congettura di partenza, tanto meno la dimostrano nel senso matematico del termine. Le congetture si possono solo falsificare attraverso controesempi, mai confermare attraverso esempi – sul punto Popper è definitivo. Le nuove verità che una congettura genera sono verità di tipo condizionale: se la congettura A è vera, è vera anche la congettura B, che essa implica. Ma B non dice nulla sulla verità di A. B condivide con A lo stesso e identico statuto congetturale di sapere provvisorio e mancante, in quanto alla congettura manca la dimosgtrazione ed è potenzialmente falsa. Da notare che la maggior parte delle verità matematiche sono congetturali, in particolare condizionali. Dipendono da quelle congetture iniziali che si chiamano assiomi. Sono, cioè, opinioni (ferreamente) dipendenti da un contesto. Niente di più. Nella modernità la verità assoluta e categorica si perde una volta per tutte e per sempre (e finalmente!). La verità congetturale genera solo reti provvisorie di sapere. I preti lo chiamano relativismo e a noi va bene così, se così si garantisce e si promuove la libertà di pensiero.

Da questi rapidi accenni potrebbe sembrare che il criterio scientifico di verità non convochi lo sguardo. Forse perché il criterio scientifico è astratto e poco concreto? Forse perché la scienza è irrilevante per il mondo della vita (Lebenswelt), come ingenuamente pensa il fenomenologo? Non è così. Lo sguardo ritorna nella questione della verità scientifica e ritorna necessariamente, essendo la verità coestesa al campo scopico, almeno in Occidente, ma ritorna in modo indiretto, legato allo statuto dell'oggetto.

L’oggetto della modernità è sui generis. Lo chiamo oggetto per abuso di linguaggio. In realtà dovrei parlare di struttura, precisamente di struttura del sapere. Ma l’imprecisione è in questo caso un’innocua semplificazione. Allora, affermo che l’oggetto della modernità era sconosciuto agli Antichi, mentre i Medievali ne conoscevano una versione impropria. Mi riferisco all’infinito.
Giustamente dico che gli Antichi non lo conoscevano e i Medievali ne conoscevano una versione impropria, perché l’infinito non è oggetto di conoscenza ma di scienza, che nell'Antichità non esisteva e nel Medioevo era ancora allo stato larvale. Infatti, l’infinito non risponde ai criteri tradizionali di verità validi in ambito cognitivo o teologico. L’infinito fa fallire il criterio dell’adeguamento, perché non è né una cosa a cui l’intelletto finito possa adeguarsi, né un’idea che l’intelletto finito possa ospitare. Non tanto paradossalmente l'infinito è un oggetto né empirico - non lo si sperimenta - né razionale - non lo si pensa. Vale nel caso infinito il teorema che la parte finita non può esaurire il tutto infinito. Teorema tanto più cogente in quanto esistono esistono parti dell’infinito che possono esaurirlo: sono certe sue parti infinite. Sfruttando questa curiosa proprietà, che nega l’assioma aristotelico del tutto superiore alla parte, Dedekind propose una definizione operativa di insieme infinito come quell’insieme che può essere messo in corrispondenza biunivoca con una sua parte propria, non finita ovviamente.

Apparentemente l’infinito risponde meglio al criterio di verità come aletheia, cioè come svelamento e rivelazione. Credere a questa possibilità fu l’errore dei teologi Medievali, che pensavano infinita la fonte di rivelazione della verità e ne fecero il loro idolo, chiamandolo dio. Dio è morto nell’epoca moderna, ma non perché l’uomo empio l’abbia ucciso, bensì semplicemente perché l’infinito è un oggetto che cessa di essere uno. I teologi cattolici oscuramente intuirono questa peculiarità controintuitiva dell’infinito e inventarono il loro dio uno e trino, sicuramente più moderno del dio rigidamente monoteista di ebrei e musulmani. (E anche più difficile da uccidere, come per Ercole fu l’idra di Lerna dalle sette teste).
Per esprimere questa situazione affatto nuova nella storia del pensiero, il termine tecnico, proposto da Oskar Veblen agli inizi del secolo scorso, è categoricità. L’infinito è una struttura non categorica. Vuol dire che può essere rappresentata in tanti modi diversi e non sovrapponibili, ognuno di per sé lecito e non in contraddizione con gli altri modi. Più precisamente, dell’infinito si possono dare modelli non equivalenti e non unificabili in un supermodello. Il rapporto tra sapere e infinito non è univoco. C’è l’infinito che serve a contare o a giocare in borsa: è l’infinito numerabile, che richiede il saper il far di conto. C’è l’infinito che serve a disegnare o a rappresentare processi continui come il movimento del corpo: è l’infinito continuo, che richiede una sottile abilità nel suddividere le parti elementari, punti semirette, segmenti. I due modelli di infinito non sono equivalenti nel senso che non possono essere messi in corrispondenza biunivoca tra di loro. Addirittura esistono due modelli diversi di infinito continuo: c’è l'infinito continuo alla Cantor, che è un modello puntuale di tipo aritmetico, e c’è l'infinito continuo alla Brouwer, che è un modello geometrico dove valgono teoremi che non valgono nel continuo di Cantor.
Insomma, bocciati i criteri di verità come adeguamento e rivelazione, l’infinito richiede un nuovo criterio non metafisico di verità. Con Freud proponiamo il criterio scientifico della fecondità. Non si può negare che l’introduzione dell’infinito sia stato fecondo di scoperte nella scienza come nell’arte. Sviluppo questo tema nel saggio

Una struttura, molti modelli.

Uno sviluppo alternativo dei rapporti tra scienza e arte, condotto più sul versante soggettivo (estetico), rispetto al mio, che risulta in un certo senso più oggettivo, trattando il tema dell'infinito, si trova nel saggio di Alessanda Pace

The Science of Art.

E lo sguardo?

Lo sguardo, come sanno bene i fenomenologi, non è l’occhio ma lo spazio scopico in cui l’occhio è immerso. Lo spazio scopico è un insieme infinito di occhi che ti guardano. Un esempio biologico (finito) può aiutare a comprendere il concetto. Il plancton, che costituisce il 90% della biomassa del pianeta, è costituito da larve di gamberetti, meduse, polipi e vermi. Esse sono dotate di un occhio rudimentale, già noto a Darwin, costituito da due cellule: una cellula pigmentata e un fotorecettore. La prima funziona da palpebra, che oscura parte del campo visivo. La seconda trasmette lo stimolo direzionale del raggio luminoso alle cellule muscolari, permettendo il movimento dell’animaletto in direzione della luce (fototassi). Insomma, un tuffo in mare equivale all’immersione in un mare di occhi, che ti guardano, ma che tu non vedi se non attraverso il buco del microscopio.

Nello spazio scopico infinito e infinitesimale, locale e globale, si fondono. (Il calcolo differtenziale e integrale si fonda sulla reversibilità tra locale e globale). In estrema sintesi, lo spazio scopico è l’infinito che ti guarda (versione esibizionista globale) ed è l’infinito che tu guardi (versione voyeurista locale). Le due versioni furono mirabilmente, se non fuse, reciprocamente ben articolate e collegate dai pittori rinascimentali. Con l’invenzione teorico-pratica della prospettiva Leon Battista Alberti e Piero della Francesca dimostrarono di saperci fare con il nuovo oggetto della modernità, non meno bene dei Cavalieri, dei Torricelli, dei Cartesio e dei Fermat. I primi inventarono un calcolo geometrico per trattare l’infinito spaziale, i suoi punti di vista e punti di fuga da fissare sul piano del disegno. I secondi inventarono un calcolo algebrico, che doveva perfezionarsi nell’analisi infinitesimale di Newton e Leibniz, per formalizzarte la nuova fisica non aristotelica.

(Chi mi scrive una pagina su Leibniz, l’inventore della scrittura infinitesimale, tuttora corrente?).

E il desiderio?

Come può l’oggetto della scienza diventare oggetto del desiderio? Se lo chiede l'uomo della strada, prigioniero com'è del luogo comune delle due culture, e se lo chiede anche lo psicanalista, a cui durante la cosiddetta formazione hanno picchiato in testa che “la scienza è l’ideologia della soppressione del soggetto?” (J. Lacan, Radiophonie, in Id., Autre Ecrits, Seuil, Paris, p. 437)

Rispondo e sottolineo: il desiderio è l’effetto soggettivo della non categoricità dell’oggetto. Il desiderio “sa completare” a livello immaginario (inconscio) quel che il sapere concettuale (conscio) non riesce ad attingere. Non occorre postulare un desiderio di sapere. Il desiderio è già di per sé una forma di sapere. E' una forma epistemica perennemente in debito di verità. Dal punto di vista epistemico il desiderio è una congettura del tipo di quelle che lo scienziato formula in laboratorio. Ma con una precisa specificità: è una congettura destinata dalla non categoricità a non avere tanto presto una verifica o una falsificazione. Da qui una certa connotazione di  infinità del desiderio, che i romantici hanno sopravvalutato (si pensi a Schlegel), ma che traspare anche da certe pagine di Freud (si pensi ad Analisi finita e infinita del 1937). Il lacaniano ortodosso può capire di cosa si tratta se al posto della mancanza-a-essere sostituisce la più originaria mancanza di sapere. La congettura indimostrata è alla base della filosofia cartesiana sotto forma di dubbio. Esercitando sistematicamente il dubbio - e non una volta per tutte come dà a intendere alla sua principessa -, Cartesio fa dipendere l’essere (sum) dal sapere (cogito), a sua volta incompleto e dubitativo. L'essere è incompleto perché incompleto è il sapere da cui dipende. (L'ipotesi lacaniana del manque-à-etre è ridondante). Non molto diversa la speculazione freudiana, che in ciò si rivela profondamente cartesiana. Esiste un inconscio, cioè un sapere che non sai di sapere ancora. Non ne possiedi ancora la dimostrazione, che acquisirai a posteriori con l’analisi. Ma la stessa analisi risulterà “interminabile”, come le OSF traducono unendliche, perché il tuo sapere rimarrà sempre incompleto di fronte all’oggetto non categorico, impossibile da riassumere in un concetto attraverso il lavoro filosofico. Nelle faglie dell’incompletezza epistemica alligna il desiderio, a sua volta incompleto e provvisorio. Il desiderio è il teorema freudiano di incompletezza, che non sfigura di fronte ai grandi teoremi moderni di incompletezza scientifica: l’incompletezza sintattica di Gödel, semantica di Tarski, biologica di Darwin, fisica di Heisenberg, per non ripetere il teorema di Cartesio dell’incompletezza epistemica, quindi ontologica, che si manifesta nel dubbio.

A noi qui interessa sottolineare che, venuti meno l’adeguamento e la rivelazione, il saperci fare con l’oggetto non categorico del desiderio non è scontato – perciò la psicanalisi non è una faccenda libresca – e diventa un fattore decisivo per il destino del soggetto. Chi non ci sa fare con l’oggetto infinito è esposto ai venti della follia: il delirio si profila come suo orizzonte di destinazione. (Cfr. Delirio e destino, Cortina, Milano 2000). Anche dal punto di vista strettamente psichiatrico la follia moderna è diversa e nuova rispetto alla follia antica, nelle due versioni rispettivamente della malinconia (incisa dal Dürer) e della mania (cantata dall'Ariosto). La follia antica è affettiva, la moderna intellettuale. La follia moderna è assenza d’opera, come la chiama Foucault in appendice alla sua Storia della follia nell’età classica, e aggiungo la precisazione: assenza d’opera intellettuale. Tipicamente l’assenza d’opera – l’accidia del folle – è non saper trattare intellettualmente l’oggetto della modernità, cioè l’infinito. Quindi la follia è non saperci fare con il desiderio. (Ciò induce alcuni psicanalisti a supporre che nella follia non esista soggetto. Sarebbe un errore come pensare che la scienza fuorcluda il soggetto.) Alla deficienza-inefficienza reale supplisce il delirio. Il delirio è una costruzione intellettuale che rifornisce il soggetto folle di grandezza e onnipotenza immaginarie. In un certo senso per il folle l’oggetto è originariamente perduto, secondo i canoni della teoria lacaniana della relazione d’oggetto (che tuttavia cessa di essere valida per il nevrotico o il perverso). Così la modernità guadagna un nuovo oggetto - l'infinito - e insieme acquisisce una nuova patologia dell’essere. Agli Antichi la parafrenia schizofrenica era sconosciuta tanto quanto l’infinito attuale.

Ma a parte l’estremo caso tragico di inefficienza oggettuale quale altre possibilità si danno? Si danno le possibilità comiche. Sono quelle che applicano al nuovo oggetto i vecchi criteri di verità: l’adeguamento e lo svelamento. Versando il vino nuovo negli otri vecchi si generano i sintomi nevrotici e/o perversi, a loro volta classificabili in individuali e collettivi. Vediamo come ciò si traduce a livello dello sguardo, cominciando dal livello individuale.
Il criterio dell’adeguamento ottiene una realizzazione impropria dell’oggetto infinito nella modalità esibizionista. L’esibizionista realizza impropriamente la corrispondenza tra finito e infinito, ponendosi come punto singolare dello spazio scopico, là dove convergono tutti gli sguardi del mondo. L’aspetto comico discende dalla pretesa narcisistica di essere il centro del mondo. Il geocentrismo non decade tanto facilmente neppure dopo il 1543, anno di pubblicazione della teoria eliocentrica di Copernico.
Il criterio dello svelamento porta alla realizzazione duale dell’esibizionismo, anch’essa impropria. Il voyeurista pretende svelare il mondo – l’altro mondo – dal buco della serratura del mondo in cui si trova. L’aspetto comico consiste nel porre a livello trascendentale un altro mondo che è semplicemente questo mondo. Le vicende dell’altro mondo sono rappresentate nei romanzi moderni, un genere letterario con scarsi precedenti nell’antichità (se si esclude sostanzialmente l’Odissea) e praticamente coevo alla scienza moderna. Il romanziere è essenzialmente un voyeurista, senza escludere che sia anche un po’ un origliatore.

I due criteri antichi dell’adeguamento e dello svelamento, tuttavia, non tramontano. Infatti, si trovano soddisfatti in modo banale nella perversione. Il perverso nega (verleugnet) l’infinito e pone l’oggetto come feticcio finito e limitato. Essendo finito, il soggetto, anch’esso finito, può adeguarvisi. Essendo finito, il soggetto può attendersi solo rivelazioni affatto prevedibili, almeno in media. In un certo senso la perversione è un fossile del buon tempo antico che non era afflitto dai turbamenti generati dall’infinito nell’animo moderno. La forma moderna e sottile di perversione si chiama "umanesimo".

E vengo al collettivo. Il sintomo scopico collettivo si situa al baricentro del triangolo formato dalle due nevrosi scopiche e dalla perversione. Esso si manifesta attraverso la problematica del velo, che è il tema del citato libro di Rosella Prezzo, Veli d’Occidente. La pretesa nevrotica del velo è di velare l’infinito. Ci riesce bene con il trucco di velare quel che non c’è, facendo credere che ci sia. Freudianamente, si tratta del fallo della madre, come equivalente dell’infinito in quanto contropartita della potenza del padre. Il velo è in questo senso una buona formazione di compromesso: nega l’infinito, in obbedienza a tutta la tradizione classica da Aristotele in poi, trasformandola nell’illusione che esista un infinito in potenza. Come ogni compromesso sintomatico che si rispetti, il compromesso del velo trae energia dalla sessualità, come i filistei sfruttavano l’energia di Sansone. Nella fattispecie il velo piega la verità dell’infinito a verità della femminilità, supposta più concreta dell’infinità. Vedere il sesso femminile produce orrore nel normale maschio nevrotico . Suscita l’orrore della castrazione come un tempo si aveva l’orrore dell’infinito. Lo afferma il mito freudiano della testa di Medusa. Il mito di Lacan, duale del precedente, lo ribadisce con il mito di Perseo che solleva la testa decapitata di Medusa. Lacan, infatti, fonda miticamente la mancanza a essere del soggetto, che il sacro fallo si incarica di simbolizzare. Nasce così il detestabile fallologocentrismo (che ignora il corpo) che tanti adepti ha avuto tra gli psicanalisti.
La civiltà lavora sull’orrore del femminile, solo di poco inferiore all’orrore dell’infinito. La Kulturarbeit, perciò, che tanto ha a cuore il benessere psichico dei maschi, deve imporre alle donne il velo. Il velo diventa così un sintomo sociale. Non serve, come i compromessi nevrotici, al godimento individuale, ma istituisce l’identificazione sociale di appartenenza. Ne fa una bandiera, anch’essa un velo, il velo nazionale. Affermare o negare il velo risulta alla fine una questione interna alle culture occidentali, quelle islamiche non escluse. Si direbbe che i maschi occidentali abbiano bisogno del velo. I veli sono dell’Occidente, come giustamente afferma Prezzo sin dal titolo del suo saggio Veli d’occidente. Ma giustamente Prezzo si interroga sulla necessità di porre a livello trascendentale la verità della castrazione come verità sulla verità, da velare a scanso di equivoci. “Non sarebbe forse meglio liberarsi del dogma della castrazione ricordando, come fanno Nietzsche [e Freud], Baubo che, sollevando le proprie vesti, allevia in una risata il lutto di Demetra?” (p. 73). Forse, una volta liberi dal dogma della castrazione, saremo più liberi a operare con l'infinito, cioè con il desiderio. Freud nutre dei dubbi in proposito. In Die endliche und die unendliche Analyse (1937), Freud considera l'invidia del pene e la protesta virile, le due componenti rispettivamente femminile e maschile del complesso di castrazione, come una sorta di strato roccioso biologico difficilmente perforabile dall'analisi. Ma forse è venuto il momento di correggere la dottrina freudiana, ponendola su basi meno dottrinarie e più scientifiche.

In conclusione mi viene da chiedere al filosofo, che ha trattato del rapporto tra Filosofia e scena comica in Ridere la verità (Cortina, Milano 1994), quale sia l’aspetto comico del sintomo del velo. La lingua italiana lo dice con una spiritosaggine, un gioco di parole: il velo segnala lo spostamento-sublimazione verso l'alto del vello che sta in basso, il vello pubico nella fattispecie. (Il movimento avviene in senso opposto al complesso di castrazione, che sposta l'orrore dall'alto, cioè dall'infinito, al basso, cioè al pene). Il velo vela la capigliatura delle donne, quei peli che molti uomini perdono quando diventano calvi. Così, in omaggio alle pari opportunità, grazie al velo le donne diventano come gli uomini, anche loro senza capelli. Meglio che senza fallo. Curiosamente in tedesco, dove “velo” (Schleier) non rimanda a “vello” (Vlies), si pone un riferimento comico a questa questione che sta proprio all’origine della psicanalisi. Freud realizzò la propria autoanalisi con lo sturanasi di Berlino Wilhelm Fliess, che guarda caso si pronuncia come Vlies.
Quando si dice nascondimento e svelatezza! Fanno entrambi ridere, quando non ci prendono per il naso.

Il discorso continua alla pagina su

Il velo epistemico,

inteso come metafora della volontà di ignoranza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAPERE IN ESSERE

SAPERE IN DIVENIRE

Torna alla Home Page